Uno dei progetti gestiti da Sara in cui siamo entrati a far parte come viaggiatori consapevoli, è l’esperienza proposta dall’associazione di Bolzano Alexander Langer che prevede l’offrire ospitalità a visitatori stranieri. Uno dei motivi che mi ha convinta a partecipare al viaggio è stato proprio questo. Non capita spesso l’opportunità di essere ospiti in un paese come Srebenica presso una delle famiglie e incontrare, parlare, guardare in volto chi si è violentemente scontrato con la Storia o chi anche solo ne è stato sfiorato, ma ne ha sentito il tanfo di morte e distruzione. Srebrenica e, in particolare, l’area del memoriale a Potocari sono impregnati di desolazione, di silenzio. Quando, quella sera, siamo arrivati, non c’era anima viva in giro. Alcune macchine parcheggiate e silenzio. Un silenzio sonoro che mi ha messo in imbarazzo quando, per fare una telefonata, sono scesa nel piazzale antistante la sede dell’associazione. Il parlare ad alta voce per cercare di far capire qualcosa a chi stava dall’altro capo del telefono mi è parso un segno d’invadenza nell’intimità di una comunità. Come ci hanno raccontato Stana e Valentina, la cittadina ha perso molto di quanto aveva una volta. La guerra l’ha sfigurata e impoverita non solo come centro di attività turistica, ma soprattutto come corpo vivente. Le vecchie terme, che fino a un trentennio fa attiravano centinaia di persone, non sono state più ricostruite o meglio, un tentativo lo si è fatto, ma è stato bloccato in modo decisamente intenzionale da qualcuno in alto per una questione politica. Il vestito, in fin dei conti, non varrà mai come il corpo vivente di una città. Srebenica ha smarrito menti brillanti di ragazzi che avrebbero potuto far rifiorire il paese, braccia di onesti lavoratori, cuori ardenti legati a madri, figlie, mogli perché un’intera generazione di ragazzi e uomini se n’è andata per sempre una ventina di anni fa. Degli oltre ottomila corpi, solo alcuni ora giacciono nel prato che si estende per ettari a Potocari. La maggioranza, nonostante siano passati vent’anni, deve ancora essere identificata e trovare una degna sepoltura. Zehta è arrivata alla sede dell’associazione Sara a cena appena terminata. Stana, sigaretta nella mano destra, interrotte le chiacchere con alcuni di noi, le è andata incontro e l’ha presentata al gruppo. Di lì a poco avrei imparato che Zehta avrebbe ospitato me e altre tre persone a casa sua per la notte. Avevo capito fin dalle prime parole che ci eravamo scambiate che Zehta era una signora dolce, socievole e comunicativa. E, per di più, parlava un buon inglese. Siamo stati fortunati, ho pensato. Non è così comune, infatti, che in questi piccoli paesi dell’entroterra, le persone conoscano bene una lingua straniera. “You speak English really well!” ho esordito dopo i primi convenevoli. “Of course, I’m a teacher. An English teacher!” Che coincidenza, avevamo qualcosa in comune. Caso? Fortuna? Non so, ma è stato grazie all’inglese se siamo riusciti a dialogare e conoscere un po’ della sua esperienza di vita. Zehta ha un volto accogliente, sorride e ci mette a nostro agio. Avrà almeno sessant’anni, stimiamo grossomodo. “May I help you with your baggage?”si offre di portare una delle mie due valigie. Zehta è una donna alta e robusta, ha braccia forti. “Why not? Thanks a lot!” Ho approfittato della cortesia e, dopo aver salutato Stana, Valentina e gli altri amici, io, P,L e M ci siamo avviati lungo le scale. La seguiamo e avvertiamo, oltre a un pizzico di ansia che va a mescolarsi all’emozione, quanto sia contenta di averci con lei. Camminiamo lungo la strada buia, illuminata da un paio di lampioni, la brezza fresca che scende dalle colline circostanti, il silenzio infranto dalle nostre voci. Una macchina passa, è lenta, sembra assonnata. Zehta la riconosce, ci dice che chi la guida è il proprietario di un ristorante del posto. Chissà, mi chiedo, forse si è trasferito qui dopo la guerra e ha messo in piedi un’attività per fare rinascere la cittadina. Non indago, preferisco ascoltare ciò che Zehta ha da dirci. La strada è leggermente in salita e alla nostra nuova amica viene un po’ il fiatone, forse anche per colpa della mia valigia. La casa è vicina e una volta arrivati, anche se è buio, grazie alla tenue luce di un lampione, riusciamo a intravedere il giardino; dei cespugli di rose costeggiano un breve sentiero che porta all’entrata. La casa assomiglia a una piccola baia di montagna, il piano terra in muratura e di colore chiaro, il piano rialzato ricoperto da travi di legno. Tutt’intorno tace. Appena entriamo, Zehta ci chiede di toglierci le scarpe, “There are carpets”, ci sono dei tappeti, e la vediamo camminare scalza per raggiungere una scala ristretta che porta al piano superiore. La scala è veramente stretta, ma soprattutto manca della ringhiera. “You need patience”, la ringhiera deve essere ancora costruita, serve pazienza, aggiunge con aria scanzonata, ma si vede che le dispiace. Solo l’indomani mattina avremmo saputo che, durante la guerra, la sua casa era stata completamente distrutta. Tutto, la vita quotidiana della sua famiglia, era finito in un cumulo di sassi, mattoni e polvere. “Quando, dopo la guerra, sono tornata con mia cugina a Srebenica e abbiamo visto come ce l’avevano ridotta, sono scoppiata a ridere. Lei mi guardava sconvolta, non riusciva a capire, deve aver pensato che ero impazzita”. Zehta si era difesa con ironia, aveva trasformato la disperazione in desiderio di rivalsa, non si era data per vinta: “Bricks? Building my house again? Nema problema”. Nessun problema a ricostruire con i mattoni. Se solo tutto fosse come i mattoni, il cemento. Sono materiali facili da reperire, e i mattoni stanno bene solo quando sono l’uno accanto all’altro, non come gli esseri umani. Le persone che hai perso non le puoi rimettere assieme come fai con i mattoni nuovi per ricostruire una casa. Gli esseri umani sono così diversi, neanche si compatiscono, a volte, di essere l’uno vicino dell’altro. Alla fine della guerra, le avevano ricostruito il piano terra, ma Zehta non si era accontentata. Con l’aiuto dei figli e dei vicini, avevano aggiunto anche il piano rialzato, una camera da letto, uno studio e un ampio salotto. La scala, l’unica cosa a restare incompiuta. Salite le scale con grande attenzione, tutti e quattro attaccati al muro per la paura di cadere, ci siamo sistemati nelle camere; io ed un’amica nello studio dove Zehta aveva preparato due divani-letto. Il soffitto spiovente, ricoperto in legno, la piccola finestra adornata con una tenda ricamata, un tavolino al centro della stanza. Semplice, ma accogliente. Il computer e i libri sopra una scrivania mi fanno pensare che, anni prima, quella doveva essere stata la camera dei figli. Quando, il mattino seguente, scendiamo in cucina per la colazione, troviamo Zehta intenta a prepararci un caldo caffè bosniaco. Ce lo serve lungo, diluito, come è tipico di queste parti. Quando lo assaggio, sento che è un caffè speciale, un caffè dal gusto dell’accoglienza, di religioso benvenuto, diverso dagli espresso concentrati e frettolosi che siamo abituati a prendere al bancone di un bar prima di scappare velocemente al lavoro. E’un caffè nero che va a intrecciarsi al sapore leggermente amarognolo del racconto di Zehta. Zehta ora è in pensione e vive a casa da sola. I suoi tre figli, tutti maschi, sono andati a vivere chi in Austria, chi in America. Il marito, Zehta, l’aveva perso nel ‘91, poco prima che iniziasse la guerra, per una brutta malattia. Di come aveva trascorso quegli anni, l’essere vedova, il crescere tre figli con una guerra che ribalta la vita, non abbiamo avuto il coraggio di chiederglielo. Ma le cose, a volte, vengono da sé. E’ stata lei ad aggiungere che poco prima che gli eventi precipitassero, si era trasferita con i suoi tre bambini a Tuzla, una cittadina libera un po’ più a nord. Poi, per vivere era stato necessario cambiare lavoro, aveva lasciato il posto da insegnante d’inglese ai bambini e trovato impiego in una banca, riuscendo, negli ultimi tempi, a fare un po’ di carriera. Tuttavia, accettare di abbandonare l’insegnamento, passione di vita, era stato per lei il dispiacere più grande da portare. Quel posto di maestra di lingua inglese l’aveva ottenuto a costo di sacrifici, studiando alla scuola linguistica; al termine del corso di studi, raggiunto il diploma, quando il direttore di una scuola elementare aveva chiesto il nome di un o una docente seria e preparata, lei era stata scelta tra tutti. Tra un sorso di caffè e un boccone di pane e marmellata, s’infilano qua e là, come intrusi, pensieri dai contorni imprecisi; immagino la sua solitudine e mi chiedo se abbia mai avuto delle remore ad andare in America, in Virginia, a trovare i figli. Oso timidamente una domanda, prendendo come pretesto il fatto che parlando bene la lingua, non avrebbe problemi nella comunicazione. “Oh no!”, Zehta aveva sciolto l’imbarazzo in un sorriso leggero. “Too far!”, “American is difficult to understand! I studied British English!”. Capisco. Non vado oltre e mi accontento di stare in compagnia di una vaga idea, quanto deve essere stato duro per i figli allontanarsi così tanto da lei, saperla sola. Qui per i giovani non c’è futuro. Oggi mancano posti di lavoro quanto il pane e l’acqua durante la guerra. Cosa fai se rimani a Srebrenica? Ogni giorno è come cadere in un pozzo di noia, sempre più profondo. Stana e Valentina ce lo avevano detto chiaramente. Le cose stanno così, un vaso di cristallo sul bordo di un tavolo. E non è, purtroppo, solo un problema di Srebrenica. Allora non resta che scegliere: la famiglia e il proprio paese o il futuro altrove. Molti ragazzi serbi, bosniaci decidono di compiere il grande salto verso l’ignoto, sperando che, comunque vada, il destino abbia in serbo qualcosa di meglio di quanto il loro paese possa offrire. Quando usciamo di casa, guardo per l’ultima volta la scala incompiuta che porta al primo piano. Quel primo piano non ci sarebbe stato se ad aiutare Zehta e i suoi figli adolescenti non ci fosse stata la famiglia dei vicini serbi. Non era mai capitato, prima della guerra, che l’una si fosse rifiutata di andare in soccorso dell’altra e viceversa. E questo vincolo di mutuo sostegno non era venuto a mancare neanche dopo. Più di ogni altra cosa. IV. Lo scontro Mentre ci dirigiamo verso Potocari, una località all’ingresso di Sebrenica, mi domando se Zehta abbia mai fatto visita all’area del memoriale per dedicare un po’ di tempo a qualche amico, parente o conoscente scomparso. Poi, riflettendo meglio, mi rendo conto che forse non ha ancora potuto, perché delle oltre ottomila vittime, solo poco più di tremila trovano lì sepoltura. L’11 luglio scorso è avvenuta la cerimonia durante la quale, come ogni anno, viene dato l’ultimo saluto ai corpi che, dopo una ricerca durata almeno vent’anni, sono stati ricomposti e identificati. Più di vent’anni, oggi. E fra dieci? Saranno più di trenta. Basteranno per arrivare a ottomila? Non credo. C’è chi dovrà attendere ancora molto, troppo e una vita non basterà. Torno al presente. Vent’anni, un arco di tempo esagerato, che trova il suo punto d’arrivo in una stele provvisoria e in un mucchietto di terra smossa di recente, anche se si è seccata sotto il sole. Camminando, ne incontro alcune, sparse qua e là sul manto erboso e circondate da migliaia di altre steli bianche. Steli, non croci perché le vittime erano di religione musulmana. File interminabili, a passare tra l’una e l’altra sembra di perdersi in un labirinto, e la mente quasi si rifiuta di pensare a quei simboli come resti umani di un massacro. C’è la natura intorno a placare quel senso di profondo dolore e impotenza che sembra soffocarmi, come se fossi stata rinchiusa dentro un cellophane, con il mio dolore e un grave senso di impotenza a impedirmi di respirare. Il cielo limpido, il sole che scalda, i dolci pendii di manto erboso infondono un senso di pace disarmante. Lo stesso scenario naturale che nel mese di luglio di vent’anni prima era stato teatro del genocidio più feroce su suolo europeo dopo la seconda guerra mondiale. Espiro profondamente per cercare di buttar fuori l’accumulo di anidride carbonica che, pochi minuti prima, mi aveva riempito i polmoni, il cuore, il cervello nella visita all’ex fabbrica di batterie e zone limitrofe, una volta quartiere generale dell’Onu. Una struttura fatiscente, brandelli di macchine industriali, squallore accolgono i visitatori con una freddezza agghiacciante. Avevo avuto freddo lì dentro, fisicamente, ma non sapevo fino a che punto fosse stato causato dalla temperatura o piuttosto dall’impatto psicologico. Il video sul genocidio, i pannelli della mostra allestita all’interno della ex- fabbrica, i muri delle stanze in cui i caschi blu avevano trascorso tre anni del loro servizio, deturpati da disegni osceni e scritte meschine mi avevano atterrato. Distesa da un incontro sul ring contro un nemico invisibile, dopo aver ricevuto una quantità imprecisata di cazzotti allo stomaco, tanti da piegarmi in due. All’uscita dall’edificio mi vedo piena di lividi blu e viola, grandi quanto grosse macchie di inchiostro, segni profondi di uno scontro da cui ero uscita perdente. V.Convalescenza Il viaggio verso l’Etnoselo, nel pomeriggio, è un po’ diverso dal solito. In macchina scende un mesto silenzio. Penso che sia difficile esternare un’esperienza individuale così a caldo, meglio seguire la saggezza delle ricette per cui, nel caso di alcuni piatti, è bene lasciar raffreddare. Anche se qualcuno mi chiedesse, non riuscirei a dire nulla. A Potocari, nel libro all’uscita del salone dove era stato proiettato il video, non ero nemmeno riuscita a scrivere una frase di senso compiuto, ma solo tre parole. Silenzio. Rispetto. Preghiera. A Trsic sembra di essere stati catapultati in un altro mondo, che sa davvero di idilliaco. La natura buona, il verde dei tappeti erbosi, il ruscello, i lunghi viali ombrosi, sentieri che si inerpicano sulle dolci colline intorno. Quanto c’è di bello al mondo, penso, per stare bene. Ma l’uomo è un animale strano, non sembra essere contento se non si va a mettere nei guai. Ci siamo allontanati dal paesaggio urbano, ma qui la presenza di certi luoghi-simbolo ancora mi accompagna. Quando, l’indomani, visitiamo un piccolo museo dove una guida ci spiega la nascita della lingua serbo croata, ripercorro una ventina d’anni all’indietro e mi rivedo, in un’aula affollata a seguire le prime lezioni universitarie di glottologia. La differenza fra grafema e fonema, la linguistica strutturale, De Suassure e la voce di un professore bravissimo, venuto a mancare alcuni anni fa. Un alito leggero di nostalgia mi sfiora, e intreccio ricordi di giornate interminabili china a studiare sui libri, sudate amate carte mie, con il racconto della guida, i pannelli su cui è stato riprodotto l’alfabeto, e la ricerca appassionata di Karadzic, ideatore e padre della lingua. Mi sembra di vederlo, anche lui chino sui libri, a indagare e scrivere di lingua, a combinare fonemi e simulare suoni, fabbro delle parole. Libri antichi, che sanno di amate e sudate carte. Da qui il salto è breve, troppo fresca la visita alla storica ex-Biblioteca di Sarajevo, distrutta da un incendio doloso durante la guerra. Vicino alla porta d’ingresso, all’esterno, una targa fa da memoria. Un edificio elegante, di stile moresco, che alterna il giallo ocra a una tinta bruno-rossastra, ricostruito anche nei dettagli uguale all’originale, in modo che niente andasse perduto: così appare l’abito della struttura architettonica che oggi ospita mostre e istallazioni. E il corpo? Svuotato, perché le migliaia di libri e testi che vi erano custoditi, sono andati perduti per sempre. Cenere. Solo pochi sono stati salvati. Come è fragile la durezza della pietra. Le mura, anche se in parte sono rimaste in piedi, non hanno saputo proteggere il patrimonio culturale che custodivano e così mille e mille parole, pensieri, storie e vite se ne sono andate in cielo, attraverso le fiamme e lunghi serpenti di fumo nero, lasciando sul pavimento pezzi più o meno grandi di carta bruciata e ceneri. Le loro ceneri.
…continua… Testo di Benedetta Bernardi Viaggio Bosnia e Herzegovina La Jugoslavia, vent’anni dopo: viaggio in Serbia e Bosnia , agosto 2016
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